Bobby Fisher

Oltre le maschere

In ricordo di Bobby Fischer

Le immagini di un uomo due anni fa, il 17 gennaio 2008, moriva Robert James Fischer. Al secolo Bobby, il più grande scacchista americano del secolo.

Moriva di insufficienza renale, dopo aver rifiutato di essere sottoposto a cure. Moriva solo e dimenticato, ridotto a macchietta — l'ultima maschera nel corso di una vita di maschere.

In fondo, tutta l'esistenza di Fischer può ridursi a questo: alla percezione che il mondo ha avuto di lui, e al suo disperato tentativo di sfuggire a queste immagini, per ritagliarne una propria.

Giovane talento

La prima maschera fu quella più banale: il bambino prodigio. Nato nel 1943, Fischer scoprì gli scacchi a sei anni grazie a un kit regalatogli dalla sorella. Cominciò a frequentare il Brooklyn e il Manhattan Chess Club, dove ebbe come mentori Arnold Denker e John Collins.

Fu a tredici anni che la bomba esplose. Prima Fischer era solo una "grande promessa": poi iniziò una crescita verticale che lo trasformò in un fenomeno unico al mondo. Sempre nel 1956 sconfisse Donald Byrne in quella che fu ricordata come la "partita del secolo". Tutto quello che sarebbe stato Fischer era già racchiuso in quelle quarantun mosse: la combinazione che sfrutta un minimo errore dell'avversario, il sacrificio accuratamente calcolato, la tranquillità nel capitalizzare la vittoria.

A quindici anni e sei mesi ottenne il titolo di Grande Maestro, il più giovane fino ad allora. Ma nelle foto Bobby è soltanto un ragazzino che si mangia le unghie, i capelli da parte, il maglione troppo grande. O un viso che spunta dal lato sinistro dell'immagine, guarda dietro di sé e sorride a trentadue denti. Un ragazzino americano. “Ma forse lui è più felice così”

Intanto la vita privata seguiva la vita pubblica. Il padre aveva divorziato quando lui era ancora un bambino. Ora era il turno della madre, che lo abbandonò solo nell'appartamento di Brooklyn per continuare i suoi studi di medicina. "Sembra terribile lasciare un sedicenne da solo", scrisse all'amica Joan Rodker. "Ma forse lui è più felice così." E forse lo era davvero. Solo con sé stesso, Fischer indossò la sua nuova maschera, quella di talento unico al mondo.

Cominciò a vestirsi con giacche dal tono sempre più snob e professionale. Non era più un bimbo prodigio o un fenomeno da baraccone. Era un pericolo vagante nel mondo scacchistico dominato dai russi.

Qualcosa di concreto. Per dieci anni si mosse fra i tornei internazionali mietendo una serie impressionante di vittorie. Si impose anche in tutti i campionati americani cui prese parte.

Il suo stile si definiva di pari passo alla sua potenza distruttiva: precisione millimetrica delle manovre, cura nei finali, dinamismo totale dei pezzi. Solo la corsa al titolo mondiale sembrava interrompersi ogni volta a un passo dalla fine.

Fallì al torneo dei Candidati nel 1962, da cui ogni quattro anni emergeva lo sfidante al campione del mondo.

Nel 1967, alle eliminatorie dell'Interzonale, cominciò una marcia trionfale di 8,5 punti su 10, salvo poi ritirarsi per proteste con l'organizzazione. Criticava i russi accusandoli di combini ai danni degli altri scacchisti.

La maschera si stringeva sempre più forte sul suo volto, pronta a un nuovo cambiamento.

Una foto di quegli anni: Bobby contro Petrosian, la giacca, la cravatta, la mano sull'orologio, il bianco e nero sfuocato dell'immagine.

Il professionista al lavoro. Sulla vetta del mondo Nell'Interzonale del 1970 Fischer staccò i secondi classificati di tre punti e mezzo. Sembrava la volta buona, e lo fu.

Nei seguenti match dei candidati annichilì Taiamanov e Larsen, entrambi con un tennistico 6-0. Anche l'ex campione del mondo Petrosjan non poté molto e finì sconfitto per 6,5 a 2,5. Così, nel 1972, Fischer poté affrontare Spasskij a Reykjavik: il "match del secolo".

Come per la sua partita di sedici anni prima, fu quello che circondava il gioco a scaldare gli animi. Fischer era l'eroe americano, giovane, bello, imbattibile: in epoca di guerra fredda il duello fra lui e Spasskij doveva tradursi inevitabilmente in una sfida fra continenti.

Per la prima volta al mondo, gli scacchi divennero l'immagine concreta di una lotta epocale. E Fischer portò a termine il suo compito, vincendo con quattro punti di vantaggio e indossando la sua nuova maschera: campione del mondo.

Nella foto più famosa lui è ai bianchi e sembra schivare l'obiettivo del fotografo ai neri: sembra sul punto di alzarsi e combattere fisicamente, di stroncare l'avversario a mani nude. "Adoro il momento in cui spezzo l'ego di un uomo", disse a un'intervista.

Aveva ventinove anni. Orgoglio e caduta E poi? Poi furono il caos e l'oblio. Una volta raggiunto l'olimpo, Fischer si limitò a sbarrarne la porta e soggiornarvi da solo.

Non giocò in alcun torneo. Chiamato a difendere il titolo contro Karpov nel 1975, propose delle condizioni giudicate inaccettabili dalla FIDE (la Federazione Scacchistica Internazionale). La risposta di Fischer fu netta come tutte le risposte della sua vita: abbandonò il titolo di campione del mondo FIDE.

L'Eroe Americano iniziò così il primo dei suoi grandi tradimenti verso l'occidente. Vestendo l'ultima maschera, quella del vagabondo.

Nei quindici anni successivi Fischer visse nella massima riservatezza. Nel 1992 vinse con un pietoso "match di rivincita" contro Spasskij. Scelse come location Sveti Stefan e Belgrado, al'epoca sotto l'embargo dell'ONU che impediva anche le manifestazioni sportive.

Gli Stati Uniti gli inviarono una lettera formale di richiamo, sulla quale sputò. (Eccolo di nuovo, Bobby il ribelle: l'ennesimo tentativo di affermarsi, l'ennesimo gesto disordinato e assurdo).

Visse nelle Filippine e in Giappone. Delirò su complotti ebraici internazionali, definendosi vittima dei giudei e negando l'Olocausto. Definì l'attacco alle Torri Gemelle "una fantastica notizia", sperando che gli Stati Uniti venissero distrutti una volta per tutte.

Il bambino prodigio aveva chiuso il cerchio. Nella foto: un ultracinquantenne bolso e trascurato, con la barba lunga e il berretto da baseball, lo sguardo disintegrato. Eccolo qui, l'ex gioiello degli Stati Uniti, Colui che Sconfisse i Russi.

Emarginato e solo, l'ultimo dei figli d'America.

Nel 2006 approdò in Islanda dove morì, un anno dopo, un anno fa, il 17 gennaio 2007.

Nel luogo che lo vide campione, come in una parabola ironicamente prevedibile. Olivier Tridon, esperto di scacchi francese, non ha mancato di sottolineare che Fischer è morto a sessantaquattro anni, come le sessantaquattro caselle di una scacchiera.

Nemmeno quest'ultimo simbolo gli è stato risparmiato.

Quello che rimane La storia dei campioni di scacchi è la storia dei loro tormenti: è il compendio dell'arte umana al parossismo. Lo sport più violento del mondo, come lo definì Kasparov, è statico solo all'apparenza: dietro i pezzi di legno si muovono passioni irrisolte, incomunicabili, che non trovano sbocco fisico e dunque sono condannate alla sospensione.

Fischer, come i pochissimi giocatori che si sono avvicinati al suo livello, è stato interpretato come metafora di un'epoca o di un destino.

Ma una volta rimosse tutte le maschere che l'hanno rivestito — via il bimbo prodigio, il campione imbattibile, l'Americano contro i Russi, via persino il pazzo solitario — non rimane che la bellezza del suo stile, la fonte con cui esprimeva davvero sé stesso.

L'unico mezzo a sua disposizione per evocare il demone della sua biografia e costringerlo al suolo: la sintesi fra eleganza ed energia, la profonda conoscenza delle aperture, la cristallina serenità nel finale. Perché, come scrive Don De Lillo, Fischer "stava solo mostrando cosa c'era in realtà sotto l'estetica e il rigore del gioco, sotto la bellezza e il progresso della mente, sotto gli sprazzi di intuito preveggente — un mondo personale di dolore e di perdita."

(dal ilsole24ore.com)